L’emigrazione lucchese in Sud Africa non è mai stata oggetto di studio specifico, probabilmente a causa del limitato numero dei soggetti coinvolti e delle difficoltà di reperimento delle fonti. E’ stata quindi una sfida importante quella che Donatella Benedetti, lucchese, ha raccolto per il tema della sua tesi di laurea magistrale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Il fitto lavoro di ricerca su fonti di archivio (reperite principalmente presso l’Archivio Storico Diplomatico Ministero Affari Esteri di Roma, l’Associazione Lucchesi nel Mondo, la Fondazione Paolo Cresci) unito allo studio di numerose fonti documentarie edite ed interviste, hanno permesso la ricostruzione di dati statistici che, ambientati nel preciso periodo storico, hanno portato alla pubblicazione della tesi, nella collana dei “Quaderni” (Quaderno n. 9) della Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana, con il titolo “Da Lucca al Capo di Buona Speranza – Storia e vicende dell’emigrazione italiana e lucchese in Sud Africa”.
Già alla fine del Seicento sappiamo della presenza in Sud Africa di un gruppo di valdesi provenienti dal Piemonte in fuga dalle persecuzioni religiose, ma fino all’arrivo degli inglesi nel 1795 fu praticamente impossibile per gli italiani raggiungere la Colonia del Capo, a causa dell’ostilità degli olandesi protestanti nei confronti dei cattolici.
Il mercato del lavoro in Sud Africa ebbe da sempre caratteristiche peculiari: fin dalla fondazione della Colonia il lavoro manuale venne eseguito dagli schiavi e anche dopo l’abolizione della schiavitù (1833) continuò ad essere svolto dagli indigeni e dagli africani provenienti dai paesi limitrofi. I Sud Africani bianchi, ritenevano che il lavoro manuale fosse disonorevole e quindi prerogativa dei neri e dei coloured.
La Colonia sudafricana aveva grande necessità di manodopera non specializzata, ma non poté mai aprire le porte ad un’emigrazione europea di massa perché i lavoratori europei costavano di più e non erano accettati dall’opinione pubblica bianca che non voleva che bianchi e neri si trovassero in competizione per mansioni non qualificate.
Con la “rivoluzione mineraria” la Colonia dovette in breve tempo potenziare le proprie infrastrutture, in particolare le ferrovie, e dovette far fronte alle esigenze di città che sorgevano dal nulla nei pressi dei giacimenti diamantiferi: in questa fase fu allora necessario far arrivare lavoratori europei. Nel 1873 furono reclutati anche settantatré operai originari del Nord Italia, che probabilmente provenivano dal Nord Europa, dove avevano lavorato nella costruzione delle ferrovie.
Gli italiani trovarono dunque lavori interessanti non tanto nel settore minerario, ma nelle ferrovie, nell’edilizia e nel commercio.
La scoperta dell’oro nel Transvaal, nel 1884, offrì nuove possibilità all’immigrazione europea e quindi anche italiana. La Repubblica Boera si trovò travolta da uno sviluppo tumultuoso e per far fronte alla costruzione di ferrovie, ponti, palazzi e di intere nuove città, ci fu la necessità di reperire in fretta lavoratori specializzati dall’Europa e dall’Italia: muratori, scalpellini, falegnami, carpentieri. L’improvvisa crescita demografica del Transvaal determinò un aumento nella domanda di prodotti agricoli, ed è proprio nell’agricoltura che trovarono principalmente lavoro i lucchesi, come si evince dai rapporti consolari di fine Ottocento e dei primi del Novecento. Con l’accresciuta presenza degli italiani presenti nel Rand, nuove possibilità si aprirono nell’importazione dei prodotti italiani e nel commercio, dove si distinsero anche dei lucchesi.
Nel maggio del 1900 gli inglesi, al culmine del conflitto anglo-boero, conquistarono Johannesburg e dopo poco espulsero centinaia di stranieri dal Transvaal. Tra di loro c’erano anche molti italiani, i quali, una volta rientrati in patria, presentarono reclamo al MAE per l’ingiusta espulsione. Le loro richieste di indennizzo sono conservate all’Archivio Storico Diplomatico del MAE e tra queste figurano quelle di alcuni lucchesi.
Per sei di loro è presente un fascicolo individuale, ricco di notizie importanti per inquadrare il fenomeno migratorio italiano in Sud Africa. Uno di questi immigrati lucchesi si chiamava Raffaele Massagli, era nato a S. Pietro a Vico e aveva 29 anni ai tempi del reclamo, nel febbraio del 1901. Era sposato ed aveva dei figli, ma in Sud Africa era andato da solo, nel 1896. Di professione era marmista e muratore, ma aveva lavorato anche nell’Arsenale ed infine aveva aperto un negozio di frutta con un francese. Fu catturato la sera del 13 luglio insieme al suo socio ed espulso il 15 luglio del 1900. Fu condotto con gli altri su un treno merci destinato al trasporto di bestiame e diretto al porto Sud Africano di East London, sull’Oceano Indiano dove fu imbarcato su un piroscafo che sbarcò a Londra dopo circa un mese. Lì ricevette un biglietto ferroviario pagato fino a Torino e una sterlina inglese. Al momento della compilazione del questionario si trovava a S. Francisco, dove lavorava come muratore. Gli furono riconosciute 3.684 lire italiane, circa la metà di quanto reclamato, in quanto il risarcimento richiesto si riferiva quasi totalmente al mobilio e alla merce del negozio, che appartenevano per metà a lui e per metà al socio francese.
Già in questa fase della “grande emigrazione”, il Sud Africa, più che altre realtà, permise agli italiani una grande mobilità economica e sociale. Era possibile con estrema facilità passare da un settore ad un altro, partendo da posizioni di vantaggio in quanto bianchi. Gli immigrati passavano in tempi straordinariamente rapidi da unskilled (non specializzati) a ganger (caposquadra) per poi divenire foreman (caporeparto) o contractor (appaltatori), spesso grazie all’apporto dei risparmi di anni di lavoro di tutta la famiglia, non necessariamente emigrata per intero.
Il fenomeno non raggiunse mai dimensioni di massa (nel 1881 gli italiani erano 79, nel 1891 280 e nel 1911 5.369), sia perché il mercato sudafricano richiedeva una specializzazione che l’emigrato italiano tipo non aveva, sia perché non esistevano collegamenti diretti tra i due paesi e il biglietto poteva costare anche il doppio di quello per le Americhe.
Gli anni della Seconda Guerra Mondiale furono difficili per gli italiani in Sud Africa (il censimento sudafricano del 1940 indica 1.450 cittadini italiani più 3.000 naturalizzati), in quanto appartenenti ad una nazione nemica. A partire dalla metà del 1941 iniziarono ad affluire in Sud Africa i primi prigionieri di guerra italiani catturati in Nord Africa e nell’Africa Orientale Italiana e fu costruito il campo di prigionia di Zonderwater, ad est di Pretoria. Molti dei prigionieri ebbero la possibilità di lavorare fuori dal campo, nelle fattorie e nelle imprese del paese, dando prova di serietà, competenza e capacità. Ottocentocinquanta prigionieri, dei circa duemila che ne fecero richiesta, furono autorizzati a rimanere in Sud Africa dopo la fine della guerra, mentre molti altri fecero ritorno negli anni successivi, grazie alla politica del Governo Sud Africano che favorì l’immigrazione italiana.
A differenza di quanto avvenne nel periodo della “grande emigrazione”, quando i flussi furono principalmente composti da contadini e operai non specializzati, nel secondo dopoguerra l’emigrazione transoceanica fu caratterizzata da un più alto livello socio-culturale (emigrarono anche tecnici e ingegneri) e cambiò la distribuzione occupazionale nei diversi settori produttivi (gli emigrati si inserirono principalmente nell’industria e nei servizi).
L’impressionante boom economico che si verificò in Sud Africa nel dopoguerra richiese l’afflusso di personale specializzato e di tecnici, impossibile da reperire in loco, anche a causa delle peculiarità del mercato del lavoro Sud Africano, che aveva sempre privato (e con il regime di apartheid ancora di più) gli africani di ogni possibilità di avanzamento professionale e sociale.
Lo studio del campione dei quarantasette lucchesi premiati per “aver onorato la patria nel mondo”, effettuato attraverso i fascicoli messi a disposizione dall’Associazione Lucchesi nel Mondo, conferma le caratteristiche dell’emigrazione italiana in Sud Africa nel secondo dopoguerra. Ben ventotto premiati su quarantasette sono arrivati in Sud Africa tra il 1950 e il 1962, proprio quando, anche su base nazionale, ci fu il massimo afflusso di italiani nel paese. La massima presenza di italiani si è registrata negli anni ‘80 quando si stima fossero circa 50.000, mentre nel 2012 risultavano iscritti all’Aire circa 31.000 italiani.
Una delle domande a cui si è cercato di dare una risposta nell’ambito di questa ricerca è stata quella del perché questi emigrati abbiano scelto proprio il Sud Africa come meta del loro percorso migratorio. Sono stati individuati essenzialmente tre canali attraverso i quali i lucchesi premiati hanno raggiunto il Sud Africa.
Il canale che è sembrato più importante, nell’ambito del campione oggetto dello studio, è stato quello delle reti familiari. L’utilizzo delle fonti orali, attraverso le interviste a sette emigrati e discendenti di emigrati, ha permesso di ricostruire una fittissima rete di rapporti familiari e di conoscenze, che in alcuni casi sono riconducibili ai pionieri lucchesi presenti nel Transvaal a fine Ottocento, come confermato dalle ricerche d’archivio.
Un altro canale importante è stato quello che si può definire una “catena di mestiere” ed è legato alla particolare situazione di carenza di figure professionali specializzate in cui si trovava il paese del secondo dopoguerra, come i minatori (caposquadra e posatori di mine), i camerieri e gli operai specializzati.
Un canale minore individuato nel campione esaminato, ma essenziale, come si è visto, per tutta l’emigrazione italiana in Sud Africa del secondo dopoguerra, è stato il campo di prigionia di Zonderwater. La “catena Zonderwater” non ha funzionato solo per chiamata diretta, ma ha innescato ulteriori movimenti perché ha riguardato non solo ex-prigionieri, ma anche loro familiari e conoscenti.
L’esperienza migratoria italiana e lucchese in Sud Africa ha molti tratti in comune con quella di altre mete transoceaniche, ma è diversa essenzialmente per la collocazione economica e sociale di gran lunga migliore dei suoi protagonisti. In quanto bianchi, gli italiani hanno avuto mansioni lavorative meno pesanti e meglio retribuite e, come si è visto, questa situazione ha permesso a chi era intraprendente e volenteroso, di sperimentare più strade ed inserirsi più facilmente rispetto ad altri contesti.
Il testo integrale della tesi da cui è tratto questo articolo è nella pubblicazione disponibile presso la sede della Fondazione Paolo Cresci, situata a Lucca nel Cortile Carrara.