Gianni Giampaoli, presidente del Centro Studi InMare, ricorda il padre nella Giornata della Pace
  dal 01 al 10 Gennaio 2018
Viareggio
Gianni Giampaoli, presidente del Centro Studi InMare, ricorda il padre nella Giornata della Pace

Primo gennaio, “giornata della pace”. Per l'occasione Gianni Giampaoli, Presidente del Centro Studi InMare asd di Viareggio, ricorda il padre Giuseppe “Sandro” Giampaoli (sergente del Battaglione S. Marco) a Tien Tsin dal 1930 al 1933: è un episodio militare, non cruento di guerra, comunque deve suonare come esempio e anche come monito – c'è sempre più bisogno di pace nel mondo.

Giuseppe “Sandro” Giampaoli, ebbe una sua storia di vita degna anch’essa di un romanzo. Nato nel 1912 a Lucca, in via Fontana, con sua madre, cioè mia nonna, che quando lui aveva sei anni contrasse nel 1918 la “Spagnola” che altro non era che una delle prime micidiali influenze apparse sul nostro pianeta. Dopo un breve decorso della malattia sua madre muore, lasciandolo solo con due sorelle. Suo padre, Paolino Giampaoli, uno dei primi conducenti di automobile che avevano ottenuto la patente automobilistica, era sempre fuori per lavoro e su di lui non si poteva contare. Mio padre dovette crescere in collegio. Raggiunta poi la maggiore età si presenta al compimento del 18° anno come volontario al distretto di reclutamento della Regia Marina. Dopo un breve quanto intenso training, viene assegnato al Battaglione San Marco e con un gruppo di altri volontari è inviato in missione nella Legazione Italiana di Tien-Tsin, in Cina. Base sperduta nel nord di quell’immenso Paese, dove l’Italia manteneva unitamente ad altre nazioni europee e agli Stati Uniti, una base militare, risalente ai primi del ‘900, con compiti di gestione e di presenza militare e logistica. La base è presidiata dai marinai del Battaglione San Marco, unità costituitasi nel corso della Prima Guerra Mondiale, quando questa si guadagnò ammirazione e onore nel corso di tante battaglie sostenute nell’Alto Adriatico, contro gli Austro-Ungarici. Il gruppo di cui mio padre fa parte viene imbarcato nel 1930 sul “Città di Siracusa”. La missione prevede, tra l’altro, la sostituzione degli altri marinai che hanno terminato il loro periodo di ferma nella base cinese; missione che durerà quattro lunghi anni. Giunta a Singapore la nave con a bordo il contingente di cui mio padre fa parte, si appresta ad affrontare il grande mare cinese meridionale per la rotta di avvicinamento al porto di arrivo. Nel corso della lunga navigazione si scatena un terribile uragano. Si trattava di un tremendo tifone (Tai-Fun, “Gran Vento” per i cinesi). L’intensità del vento di un tifone può spingersi oltre forza 12 della scala Beaufort. Un tifone è in grado di scatenare venti di oltre 65 nodi potendo raggiungere anche i 170, che equivalgono a 315 kmh. Sul mare gli effetti sono quelli di creare onde superiori ai 20 metri di altezza: nessuna nave è in grado di resistere a lungo in tali condizioni. E’ questa una situazione nella quale la forza scatenata dalla natura raggiunge il suo apice. Essa solleva navi e intere abitazioni, spiana città, annienta campagne e foreste. Urla, sibila e distrugge senza pietà ogni cosa che incontra sul suo cammino. Il “Città di Siracusa” stava navigando alla volta di Tien-Tsin quando una mattina il mare cominciò a peggiorare. Il giorno si era levato con un’aria tetra e scura. Alla sera il mare prese a gonfiarsi in modo preoccupante con un fortissimo vento in costante aumento, facendo presagire l’arrivo di una imminente tempesta ciclonica. Il rollio e il beccheggio della nave si fecero sempre più accentuati con il ponte dell’unità che si inclinava quasi a toccare l’acqua. Fu allora che il barometro prese a precipitare sempre più con il mare divenuto una continua montagna di ondate gigantesche. Il beccheggio era impressionante e le rollate sempre più paurose. Il turbinio dell’aria con i violenti piovaschi e gli spruzzi spumeggianti che infuriavano tutt’intorno avevano ridotto a zero la visibilità. La nave stava arrancando come meglio poteva in quell’inferno, con enormi oscillazioni e violenti impatti contro muraglie d’acqua che scuotevano tutta la nave come fosse stata un fuscello. Il lungo scafo nero si infilava in un mare nel quale le creste delle onde pareva toccassero il cielo con la nave che veniva sollevata pesantemente per poi abbattersi di nuovo nel cavo profondo di onde altissime. I ponti erano completamente invasi dal mare. L’acqua schiumosa debordava come impazzita cercandosi una via d’uscita per scaricarsi attraverso gli ombrinali dei trincarini. La pioggia era divenuta torrenziale e muraglie d’acqua verdastra incombevano da ogni lato abbattendosi senza pietà sulla povera unità. Il “Città di Siracusa” veniva così sbattuto dai tremendi vortici dell’uragano in mezzo a enormi ondate, mentre tutt’intorno il mare impazzito ribolliva senza tregua.

L’equipaggio civile della nave è completamente “a paiolo” e la stessa abbisogna della collaborazione dei fanti imbarcati del San Marco, i quali da passeggeri sono costretti a trasformarsi, loro malgrado, in provetti addetti alle manovre e alle macchine al fine di garantire il governo della nave. Successivamente, visti vani i tentativi di procedere in quell’inferno con la rotta assegnata, il comandante dell’unità, un valido capitano genovese, dopo aver sottolineato il rischio che si appresta a far correre alla nave e aver informato tutto il personale imbarcato, decide di invertire la rotta in mezzo a quel terribile tornado. Dà ordine di pompare in mare lungo i bordi della nave olio di macchina, secondo l’uso che si adottava in quei frangenti, per attenuare i colpi di mare che si abbattevano contro le murate. Dando tutta macchina all’elica di sinistra e facendo girare l’elica di destra in senso contrario fa ruotare repentinamente il lungo scafo su se stesso, pregando il Dio del Mare di non farli traversare nel momento più delicato della manovra, la qual cosa avrebbe significato il naufragio di tutti. La preghiera viene ascoltata con la nave che pure rollando paurosamente, riesce a posizionarsi ora con i marosi di poppa. Governando con consumata maestrìa, con le eliche che non vanno più in cavitazione e con un pizzico di fortuna il comandante riesce a riportare a Singapore la nave e i passeggeri piuttosto malconci, ma tutti sani e salvi.


Una volta passato il terribile fortunale, fu ripreso di nuovo il mare e la nave giunse a Tien-Tsin, dopo lunghi giorni di navigazione e patimenti vari.
Uno dei compiti che in seguito venne affidato a mio padre e ad alcuni suoi commilitoni fu quello di presidiare il battello che faceva la spola con un percorso di andata e ritorno settimanale, tra l’interno della regione e il porto di Tien-Tsin. Sono soprattutto i suoi più fidi compagni di avventura, Tommaso ”Maso” Buonaccorsi e Mario Chierchini che formano con lui, la squadra più affiatata. Quei poveri abitanti del luogo potevano così portare al mercato della città i loro miseri prodotti coltivati nei terrazzamenti dei loro villaggi posti nell’interno, tra montagne, valli e colline. Il battello veniva fatto avanzare lungo uno stretto canale che scorreva tra alte pareti a picco, da addetti a questo lavoro. Lungo delle cengie che costeggiavano la via d’acqua, uno stuolo di questi addetti, con delle grosse gomene, tirava la barca trascinandola controcorrente, con un lento, atavico incedere, intonando la loro sofferenza con dei cori lamentosi, curvi sotto il peso delle grosse funi.
La cosa richiedeva alcuni giorni di lento navigare per risalire il lungo canale e raggiungere l’ormeggio di destinazione. Il compito di mio padre e degli altri suoi compagni era quello di vigilare affinchè i pirati che infestavano la zona non si arrampicassero a bordo per fare carne da macello di tutti i passeggeri. I militari erano dotati di buffetterie e armati di revolver, moschetto, baionetta per il corpo a corpo, bombe a mano, faro a batteria per fare luce in caso di necessità e mitragliatrice montata su treppiede.
Al ritorno, avendo sbarcato i passeggeri che rientravano e imbarcato altri che intendevano recarsi al mercato di Tien-Tsin, la navigazione procedeva questa volta in velocità, essendo il battello spinto dalla corrente vorticosa che procedeva con grande impeto a valle. Per garantire l’incolumità del battello, saliva a bordo un pilota locale, esperto delle correnti, dei gorghi ma soprattutto dei relitti di tanti battelli naufragati, le cui estremità spuntavano all’improvviso dalla superficie, nelle tante curve nelle quali si snodava il lungo canale. Così come una sorta di veloce tabooga, il battello percorreva a fil di corrente, la rotta di ritorno logicamente in un tempo molto più breve. Anche qui non senza rischi, che erano dovuti in questo caso - come i militari erano stati precedentemente avvertiti - a una possibile complicità tra i pirati in agguato e lo stesso pilota locale che poteva favorire un loro abbordaggio al fine di depredare e uccidere tutti i passeggeri, per impossessarsi dell’imbarcazione. La durezza delle missioni si accompagnava a quella del clima locale, che vedeva un’estate torrida, con una umidità insopportabile e un inverno così rigido da far gelare il mare lungo tutta la costa, trasformandolo in una sorta di banchisa polare con grandi blocchi di ghiaccio affioranti, molto simili agli iceberg del Polo Nord.
La sua vicenda militare ha poi continuato con il rimpatrio e successivi, continui richiami sotto le armi - Dodecaneso, Istria, Albania - sempre come sergente del San Marco, nelle varie fasi belliche nelle quali il Paese e il regime di allora, con alterne fortune, si trovavano a dover fare i conti.